Le culture del progetto tra parole d’ordine e slogan

Francesco Cellini s’interroga sulla vacuità del dibattito odierno. Ma il rimedio è nelle nostre mani…

La condizione della voce pubblica dell’architettura è davvero deprimente e, forse, lo diventa ancor più se, in coerenza coi tempi, ne aggiorniamo i termini a quelli del linguaggio corrente, quello dei social networks. Nelle attuali dinamiche della vita professionale e artistica non c’è infatti traccia della logica strutturata, convenzionale, militante, anzi quasi militaresca, che caratterizza il primo di essi (la parola d’ordine), né alcun ricordo della fantasia sensuale e provocatoria che era propria degli slogan della tradizione pubblicitaria. Oggi si tratta, semplicemente e piattamente, di parole: chiave, reiterate, allusive e quindi semivuote, dove spesso l’hashtag sta a compensare l’imprecisione con la ricorrenza. Ovvero di gruppi di esse, quindi qualcosa di meno che frasi, cioè parole scelte (per contrasto, stridore, sonorità, assonanza) in modo che l’insieme resti facilmente memorizzato e replicato; insomma che sia, per usare il gergo in voga, un meme. Tali sono le forme della lingua universale della comunicazione e della seduzione sociale contemporanea; quindi la cosiddetta cultura del progetto, come tutte le altre, le adotta, o meglio, vi si impersona. Cosicché ridonda di eco-, bio-, paesaggio, paesaggi, boschi verticali ecc. e lo fa proprio nella sua manifestazione più evidente, quella delle modalità con cui gli architetti cercano di attrarre i committenti; le stesse, in quanto a ruffianeria, usate da Bernini nel regalare il modello d’argento della fontana dei Quattro Fiumi alla cognata di Innocenzo X.

 

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